Dieci anni fa, giorno più giorno meno, entravo in Università.
Bari, Facoltà di Economia, corso di Laurea Triennale in Economia e Commercio.
Nessuna idea di cosa avrei imparato e cosa volessi da quei tre anni. Varco quella soglia di cemento e parentopoli, spinto forse da un certo senso del dovere, tipico del figlio unico di una coppia dove sia mamma che papà hanno tirato su due imprese pazzesche da due poco più che start-up, ereditate a loro volta dalla generazione ancora precedente.
Un ambiente caotico, dove da un lato la qualità dell’offerta tende al mediocre (esclusi alcuni picchi che purtroppo inizio ingratamente a dimenticare), e dall’altro lo studente medio zompetta a piè pari su tale mediocrità cercando di affossarla ancor di più con un valzer di pretese senza senso, contemplando l’essere “fuori corso” come un diritto e la non-partecipazione come un dovere.
L’associazionismo mi dà subito l’impressione di politica spicciola, non troppo lontana dalla parentopoli così violentemente contestata e quindi me ne tengo, forse erroneamente, alla larga.
Nonostante la breve distanza, decido proprio di trasferirmi a Bari, lasciando – escluso il weekend – il mio paese poco lontano. La realtà, però, mi dimostra che una scelta del genere ha davvero poco senso davanti a un calendario accademico adatto a un part-time. L’entusiasmo da matricola scende lentamente e mi trovo in Università con pochissima Università ad attendermi, e un carattere davvero non incline alla vita festaiola da matricola (altro rimpianto).
Cosa fare?
Rispondo a questa domanda pochi mesi dopo, in una delle estenuanti attese dell’arrivo di un professore, cronicamente in ritardo, davanti ad aule sempre più piene e sempre più disperate, in cui l’attesa di formazione diventava la formazione stessa. Un ragazzo, con aria molto stravagante, irrompe in aula, e invita tutti ad un convegno sulla sostenibilità in programma nelle ore successive. Al liceo scientifico del mio paese il tema sostenibilità era affrontato di rado, all’università mai sentito, però piuttosto che annoiarsi ancora…
Ed è così che l’ingenuo Giancarlo scopre AIESEC.

Nascono le prime amicizie universitarie, i primi lavori in team e la scoperta di un mondo para-universitario transnazionale di giovani uniti da valori tanto universali quanto unici: dialogo, tolleranza, lavoro durissimo ma mai da soli, feedback, crescita personale, divertimento. Poi le prime assunzioni di responsabilità, le sfide che iniziano a diventare grandi – Proviamo a far venire un egiziano e uno yemenita a fare uno stage in un’azienda di Bitonto, nel bel mezzo di una rivoluzione in Egitto e un inizio di guerra in Yemen? Una quisquilia dialogare con ambasciate arabe in tempi di guerra, ma al Centro per l’Impiego di Bitonto come riusciamo ad attivare un tirocinio formativo con extraeuropei?! – i tanti fallimenti e il senso di aver trovato davvero un bel modo per riempire le giornate universitarie – mentre gli esami scorrono con relativa tranquillità.
Trascorrono gli anni, e succede che prima coordino l’intera attività su Bari – l’anno più bello di sempre, in cui capisco quanto sia bello non vergognarsi di un sogno e condividerlo apertamente con gli altri e scopro inoltre la potenza inaudita di una visione condivisa nella spensieratezza dei vent’anni -, successivamente mi trasferisco addirittura a Milano per due mandati annuali – vivendo l’ironico paradosso di risiedere a Milano e “scendere a Bari” per dare gli esami -, per poi trascorrere un anno addirittura a Rotterdam, in Olanda, e concludere il tutto con una meravigliosa esperienza di volontariato in Myanmar, e mille incredibili viaggi nel frattempo.
Una botta di cinque anni di doping cerebrale e fisico. Perché poche cose restano impossibili dopo che a 23 anni:
- il tuo team conclude una partnership con le Nazioni Unite;
- guardi con i tuoi occhi gente cambiare NAZIONE per seguire un tuo progetto ad alte probabilità di fallimento;
- lavori meravigliosamente in un team composto da 24 individui che provengono da 17 Paesi diversi, e ritrovi gli stessi pregi e difetti dei miei amici di paese.
Un quinquennio che mi ha aperto gli occhi su un modo diverso di vivere la vita, dopo averne visto le mille possibili declinazioni: ho iniziato a sentirmi privilegiato non perché ero “figlio di” ma semplicemente in quanto cittadino di una nazione non in guerra e con un minimo di welfare; ho cominciato a non essere a mio agio con l’idea di status quo, ma altrettanto consapevole della vanità delle parole e delle lamentele e della loro totale inconsistenza davanti all’efficacia dei fatti.
Insomma, mi ha fatto venire voglia di spaccare, e capire che non è poi così impossibile.
Il rientro dopo questa botta di vita non è stato semplice: anche la stessa scelta di tornare in Puglia è stata difficile, nonostante buone probabilità di carriera internazionale, onestamente non del tutto archiviate. L’esperienza in AIESEC Italia mi ha effettivamente reso figlio di quel concetto di “Make in Italy” che sostanzialmente dice “smettila di lamentarti e prenditi le tue responsabilità, consapevole dei tuoi limiti ma anche del tuo potenziale”. E dunque il grande conflitto interiore sull’iniziare a lavorare con i “cattivi” – il famigerato settore Oil & Gas, attività finora primaria dell’azienda di famiglia, unito e complementare alla conseguente voglia di non rallentare e cercare di essere quell’agente del cambiamento che adesso – dopo il quinquennio precedente – sapevo di poter almeno provare ad essere.
E quindi, di corsa, mi unisco a La Scuola Open Source e, insieme ad un gruppo di allora sconosciuti, fondiamo questo posto per ripensare l’approccio all’educazione. E poi sale la voglia di portare la mobilità elettrica nell’azienda di famiglia, l’opportunità dell’Erasmus per Giovani Imprenditori (opportunità conosciuta grazie a un ex-AIESECer e dove ho trovato ospitalità da un altro ex-membro AIESEC in Olanda) per comprendere il settore, e la decisione di far partire un progetto parallelo, Sagelio, per dimostrarne la validità al di fuori dell’ambiente protetto dei “soldi di papà”.
La scoperta del potere come verbo e non come sostantivo (parole del faro Guglielmo Minervini), che forse è il modo migliore per riassumere l’intera mia esperienza in AIESEC, il vero regalo che mi ha fatto l’Università e per cui le sarò, comunque, eternamente riconoscente.
